201004-1013 Nabucco-Zaccaria @ Teatro del Maggio, Firenze

From rehearsal

Short interview

Stage photo

Artisti
Maestro concertatore e direttore Paolo Carignani
Regia Leo Muscato
Scene Tiziano Santi
Costumi Silvia Aymonino
Luci Alessandro Verazzi
Nabucco Plácido Domingo
Abigaille María José Siri
Ismaele Fabio Sartori
Zaccaria Alexander Vinogradov
Fenena Caterina PivaIl
Gran Sacerdote Alessio Cacciamani
Abdallo Alfonso Zambuto
Anna Carmen Buendía

Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro del Coro Lorenzo Fratini

Oct.7, Curtain Call…
Special Thanks to Ms.Katerina Waldersee, @KWaldersee❤️❤️❤️

Great review

Firenze – Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: Nabucco
 
Non è elegante parlare dell’età delle signore e certo non è il massimo neppure il pettegolezzo su quella dei signori. Da anni però i melomani disquisiscono sull’effettivo anno di nascita di Plácido Domingo, ufficialmente indicato nel 1941, ma spesso messo in discussione a causa di una cronologia di recite (fu Edgardo in una Lucia di Lammermoor nel 1962 a fianco di Lily Pons; ma due anni prima avrebbe impersonato Normanno nella stessa opera e addirittura nel ’58 Matteo Borsa in un Rigoletto) poco compatibili con la suddetta data.
Ci mise del suo anche la moglie di Giuseppe Di Stefano quando nel libro biografico “Callas nemica mia” raccontò di una tournée messicana del 1949 nella quale si legge: “C’è un giovanissimo tenore che viene sempre dietro le quinte ad ascoltare Pippo e ne segue ogni mossa. Si chiama Placido Domingo. Credo sia spagnolo”. Difficile pensare a un bambino di otto anni già classificabile come “tenore”, ma non è impossibile ipotizzare una certa confusione nei ricordi della signora Maria Di Stefano. D’altra parte non ci sarebbe nulla di esecrabile (e neppure di nuovo nel mondo dell’opera) nel vanitoso vezzo di diminuirsi l’età. Per molti anni Magda Olivero dichiarò di essere nata nell’anno 1912 in luogo del 1910, per non parlare di Dorothy Kirsten, che solo dopo la scomparsa si seppe avere avuto i natali nel 1910 anziché nel 1917, avendo ella “dovuto” dichiarare un’età più verde per farsi strada nel mondo operistico, dopo avere iniziato a cantare relativamente tardi.
Dopo la prima del Nabucco fiorentino che ha visto Plácido Domingo esibirsi nel ruolo eponimo si può tranquillamente affermare che, in qualsiasi anno il cantante sia nato, non pare plausibile che sia nato su questo pianeta, trattandosi più verosimilmente di un alieno dotato di poteri superiori a quelli degli umani. Anche prendendo per buona la data ufficiale, che lo avvicinerebbe agli ottant’anni (da compiere il gennaio prossimo) appare infatti poco credibile che un comune terrestre, dopo ben più di mezzo secolo di una carriera di intensità pari a poche altre, condita da direzioni di orchestra, cambio di registro da tenorile e baritonale e seri problemi di salute risolti come se fossero stati comuni raffreddori, possa presentarsi sul palcoscenico in una tale forma, per cantare con tanta precisione, tenuta musicale, nitidezza nella dizione, proiezione sonora e gestione dei fiati.
Passato più di un decennio dal debutto come baritono nel ruolo di Simon Boccanegra, in quello che apparve erroneamente come un semplice sfizio di fine carriera, Domingo non solo non accusa una reale stanchezza, ma in certi ruoli (come questo di Nabucco) pare quasi essere in progresso. E se l’ascolto nelle registrazioni audio e video e in altre parti faceva e fa storcere la bocca a molti (compreso chi scrive) per la solita storia che recita “è sempre un tenore che vuol fare il baritono ma resta tenore”, l’ascolto dal vivo lascia attoniti non solo per quanto sopra detto, ma anche perché il timbro, tutto sommato, seppur chiaro e un minimo impoverito rispetto a… una quarantina di anni fa, può ormai definirsi quello di un baritono brillante, non più chiaro di altri colleghi più giovani e anche sufficientemente differenziato da quello di un tenore spinto e scuro come quello di Fabio Sartori, suo partner in questa produzione nel ruolo di Ismaele.
Domingo nel corso della recita sa dosare le sue energie, stringendo un po’ di frasi per accorciare i fiati, ma sempre con quell’innato senso musicale che lo ha accompagnato lungo tutto il corso della carriera. Adeguato nella sua scena di ingresso, gioca giusto un po’ di rimessa nell’arduo “Mio furor”, è ben centrato nel duettone con Abigaille e si presenta puntuale all’appuntamento con “Dio di Giuda”, fraseggiato con classe e accenti intensi e commossi e premiato da un lunghissimo applauso. Poco male che in “O prodi miei” le micce siano ormai bagnate e il brano venga poco più che accennato, con tanto di salto di frase: quel che si è ascoltato prima valeva comunque la serata. E va da sé che il carisma dell’artista è intatto.
Altro elemento di interesse in una serata di alto livello complessivo è il positivo debutto di Maria José Siri come Abigaille. Il soprano ha voce di discreto volume, specialmente nella seconda ottava, quanto basta per affrontare con sicurezza l’arduo ruolo senza inseguire il fantasma del soprano drammatico, che sarebbe pure inutile visto che la proiezione della voce e la preparazione tecnica della Siri la rendono ben udibile lungo tutto l’arco della recita, concertati compresi. Presentatasi a Firenze molto ben preparata e già padrona della parte, di lei piace la sostanziale assenza di sforzo nei passaggi più ardui, l’intelligente rinuncia ad aprire il suono nel registro grave, non proprio sfarzoso, e il gusto con cui impersona un’Abigaille più donna lacerata dalle passioni e dall’ambizione anziché battagliera virago. Il finale dell’opera “Su me, morente esanime” è forse il momento più emozionante della sua prova, assieme all’aria “Anch’io dischiuso un giorno”.
Sugli scudi anche il basso Alexander Vinogradov, dalla sonora e solida emissione, che domina un ruolo di estrema difficoltà come quello di Zaccaria con autorevolezza ed è salutato da applausi convinti al termine della preghiera “Tu sul labbro”, risolta con intonazione impeccabile e bel fraseggio scolpito. Qualche accenno di gutturalità “slaveggiante” nel timbro si coglie solo nella grande scena di ingresso, ma va attenuandosi nel prosieguo della recita.
Va precisato, senza con ciò voler sminuire la prova degli interpreti principali, che tutti sono beneficiati dai sistematici tagli cosiddetti di tradizione di tutte le riprese delle cabalette e del “Deh perdona” del duetto tra baritono e soprano, che maliziosamente si immaginano chiesti da uno degli interpreti e poi imposti al resto del cast per “par condicio”. Questa proposta di un’edizione vecchio stile appare l’unica pecca della direzione musicale di Paolo Carignani, che guida un’ispirata Orchestra del Maggio ad una prestazione sontuosa per ricchezza, brillantezza e nitidezza di suono. Carignani conferisce un’impronta molto personale sia alla Sinfonia che al “Va, pensiero”, la prima interpretata con marcati contrasti, sia dinamici che agogici, il secondo (bissato su pressante richiesta del pubblico) condotto su un tempo lento e su sonorità delle voci più sommesse del solito, con risultato tra lo struggente e il solenne. Più convenzionale, ma di sicura efficacia, il resto dell’esecuzione, dal buon passo teatrale e con la lancetta della dinamica tendente verso il forte, ma senza scadere nell’effetto bandistico. A quella dell’Orchestra fa il paio la prestazione di eccellenza del Coro guidato da Lorenzo Fratini, assai impegnato in quest’opera e come sempre ricco di caldi accenti.
Tornando ai solisti, un tenore come Fabio Sartori è un lusso come Ismaele, a cui presta la sua generosa e solida vocalità, magari non proprio ricchissima di sfumature. Ma va ricordato come il ruolo sia breve e piuttosto unidimensionale e di tali effetti ne consenta davvero pochi.
Ottima la Fenena di Caterina Piva, dallo strumento rotondo e luminoso che emerge sia nel terzetto che nella sua aria nell’ultimo atto, e molto ben distribuite le parti di fianco, dalla consistente Anna di Carmen Buendia, che svetta nei brani d’insieme, al Gran Sacerdote di Alessio Cacciamani, dalla solida presenza vocale e scenica, ad Alfonso Zambuto, preciso nelle frasi riservate ad Abdallo.
Si riproponeva il bello e lineare spettacolo di Leo Muscato, già visto e recensito due volte, la prima al vecchio Comunale e la seconda al Teatro del Maggio, che in questa occasione dimostra di reggere bene anche l’adattamento alle misure di prevenzione del Covid con l’estrema semplificazione (e spesso eliminazione tout-court) del lavoro sui figuranti che lo caratterizzavano con i loro dinamismo. La forma più oratoriale dell’allestimento fa comunque apprezzare il gusto della realizzazione scenica di Tiziano Santi, dei costumi di Silvia Aymonino e delle luci di Alessandro Verazzi.
Successo calorosissimo con molte chiamate alla ribalta per i protagonisti, in particolare per Domingo, Siri e Vinogradov.
La recensione si riferisce alla prima del 4 ottobre 2020.
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